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Publié par Alessandro Zabini




In quel giorno d’estate del 1748, però, mio padre non era in viaggio. Di ritorno da Lancaster, dove avevano avuto una conferenza con le autorità della Pennsylvania per ripristinare le alleanze commerciali e politiche con gli Inglesi, alcuni capi delle genti shawnee che vivevano ad occidente, oltre le montagne, sull’Ohio, passarono per Chambers’s Mill e sostarono a salutare i trafficanti che conoscevano.

Un condottiero maestoso e nobile, alto un metro e ottantacinque, grosso e nerboruto, venne a conversare con mio padre. Portava piuttosto corta la nera chioma, tranne una lunga ciocca da scotennatura sul cocuzzolo, adorna di una sola penna. All'angolo di ciascun occhio aveva dipinto un tratto rosso lungo cinque centimetri, mentre alcune pietruzze luccicanti gli ornavano i lobi delle orecchie, che lui, secondo la tradizione shawnee, aveva tagliato e allungato fino a cinque o sei centimetri. Indossava una camicia di cotone lunga sin quasi al ginocchio, breech-cloth, gambali di cervo alla coscia, mocassini con una sola cucitura superiore. Alla cintura aveva il coltello nella guaina, una pipa-tomahawk, e una borsa per il tabacco. Portava la coperta di lana blu arrotolata intorno alla vita. Aveva al fianco destro una bella borsa di cervo tinto di nero, ricamata a motivi floreali stilizzati con aculei di porcospino, che pendeva da una tracolla di lana rossa orlata di panno nero. In braccio teneva il fucile.

Era Cornstalk, capo della gente Chalaka del popolo Shawnee.

Mentre mio padre conversava con Cornstalk, e io ascoltavo con grande interesse, assieme ai miei fratelli, nubi scure si addensarono nel cielo, passando rapidamente sopra la foresta e il fiume. Il vento rinforzò sempre più, scuotendo le chiome degli alberi giganteschi. D’un tratto, un lampo spaccò le nuvole gravide di pioggia.

Mio padre alzò lo sguardo al cielo tempestoso: «Si prepara  un temporale,» commentò, rimettendosi a fumare la pipa.

«Più che un temporale,» preconizzò Cornstalk, prima di gettarsi la coperta blu sulle spalle.

La conversazione fra nostro padre e il condottiero riprese, ma i miei fratelli ed io la seguimmo più distrattamente, perché eravamo affascinati, come sempre, dal maltempo.

Il vento divenne via via più violento e i tuoni, assordanti, cominciarono a ripercuotersi nel cielo oscurato dalle nubi ogni momento più cupe. Grosse gocce di pioggia presero a crepitare sulle fronde, mentre i lampi si susseguivano, abbaglianti.

Quando sibili acuti e lontani ruggiti preannunciarono l’uragano, la conversazione cessò e l’apprensione si diffuse per l'intero villaggio. Gli unici che mantennero una calma assoluta furono gli Shawnee, i quali parevano allietati dall’infuriare degli elementi. Nostra madre ci ordinò di entrare subito in casa, ma i miei fratelli ed io, più che mai affascinati, rifiutammo. Cornstalk disse che non correvamo alcun pericolo, e lei, al momento, si diede per vinta.




Per fortuna, l’uragano passò a qualche distanza dal villaggio. Il vento, tuttavia, sradicò arbusti e cespugli, che volteggiarono nel vento e nella pioggia insieme alle fronde strappate, nel fragore assordante. I panni stesi da mia madre volarono via col filo e con le pertiche, rapiti insieme ai secchi e agli oggetti più svariati. Gli orti furono devastati e il porcile abbattuto, cavalli e bovini fuggirono nella foresta. L'erba del pascolo fu schiacciata al suolo come il mais, e le acque del fiume ribollirono e spumeggiarono. Le voci non si udivano più nello scoppiare dei tuoni e nel fischiare e rombare del vento, che squassava e curvava gli alberi. I fulmini squarciavano senza posa l'oscurità.

Con la furia dell’uragano aumentò la paura dei miei genitori e di tutti gli altri Bianchi, che si rifugiarono nelle case. Persino i miei fratelli si decisero a rientrare. Ma io notai che gli Shawnee, tranquillissimi, avvolti nelle loro coperte, ammiravano quella manifestazione di potenza della natura ed esclamavano: «Wawaugh! Waugh!» esprimendo in tal modo la meraviglia suscitata in loro dalle folgori più fulgide e la delizia causata dai tuoni più fragorosi. Così, quando mia madre mi afferrò per un braccio allo scopo di trascinarmi in casa, mi aggrappai saldamente a una gamba di Cornstalk e resistetti. In quel momento il condottiero, che era sempre impassibile e severo, mi sorrise, passandomi un braccio intorno alle spalle, e con una occhiata e un gesto riuscì non so come a tranquillizzare mia madre. Dunque rimasi là, fuori casa, nella pioggia e nel vento, ad ammirare l’uragano.

Molti alberi furono abbattuti o sradicati con schianti spaventevoli: alcuni rotolarono sui campi ed altri precipitarono tra i flutti sconvolti del fiume. Le case stesse tremarono, con gran scricchiolar di tronchi. La gente in preda al panico, inclusa la mia famiglia, fuggì alla ricerca di rifugi più sicuri, alcuni cadendo e rotolando, travolti dal vento impetuoso, nel turbinio di vegetali strappati e spinti dalle raffiche che si susseguivano incessantemente nel buio innaturale; ma io, sebbene impaurito, rimasi accanto al capo chalaka.

Quando la calma e la luce tornarono sullo sfacelo, e il brontolio dei tuoni si allontanò, Cornstalk si accosciò accanto a me, sempre abbracciandomi: «Voglio spiegarti una cosa che mio padre spiegò a me in una occasione simile a questa, quando ero bambino,» disse, scrutandomi solennemente negli occhi. «Gli Shawnee sanno di non aver nulla da temere da uragani e tempeste, perché spesso Persona Ciclone, che è gigantesca, infligge disastri meno gravi di quanto sarebbe in suo potere, e perciò va rispettata. Mentre vola, la sua lunga chioma s'impiglia nelle case dei Bianchi, scoperchiandole, e negli alberi, sradicandoli, però mai nelle case shawnee.»

«Davvero?» chiesi.

«Guarda tu stesso: Persona Ciclone non ha nuociuto né ai miei compagni, né a me, né a te che mi eri accanto, e non ha distrutto le case, non ha abbattuto molti alberi, non ha causato vittime fra la tua gente. Eppure avrebbe potuto farlo facilmente.»

«E chi è Persona Ciclone?»

«È una creatura di Kokomthena, Nostra Nonna, lo spirito creatore.»






(From Alec Zayford, L’ultimo addio, Bologna, La Frontiera, pp. 36-39)








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