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Publié par Alessandro Zabini




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Solo nella sua stanzetta con libri, penna e fogli—parole, immagini. Tutto il resto è fuori. Solo con le sue immagini e con le parole, come se fosse morta l’immaginazione, che immaginandosi morta rinasce—come se fosse impotente, affermando la propria onnipotenza—impossibilità che è proliferazione—impossibilità di tessere per tessere all’infinito.

Scrive sui fogli come se stesse visitando il paradiso, come se fosse un investigatore privato in una grande città, come se fosse una voce disincarnata nell’oscurità, che non sa nulla e che incessantemente parla senza sapere cosa dire. Dice di non sapere cosa sta dicendo, perché non ha nulla da dire e tacere è impossibile. Non come se credesse di esserci stato o di esserlo davvero. Non come se volesse farci credere di esserci stato o di esserlo davvero. Sa di non esserlo, non crede di esserlo, non vuole farci credere di esserlo. Scrive come se lo fosse, come se incessantemente dicesse null’altro che farsi e disfarsi di parole—come se non sapesse nulla, come se non potesse nulla—ma nessuno sa e può di più. Sa tutto del paradiso, della grande città, della voce che parla e dell’oscurità, di quello che non sa, di quello che dice senza poterlo dire.

Scrivere come se fosse qualcosa d’altro per scriversi, altrimenti dovrebbe scrivere davvero di qualcos’altro, e questo non aprirebbe niente, non aggiungerebbe niente. Tanto varrebbe lasciare la stanzetta piena di libri e di carte. Se non scrivesse come se fosse, non sarebbe, non si scriverebbe, non sarebbe una cosa di parole sulla pagina. E cos’altro, se non scrivere come se—per tessere panni di parole sulla pagina, e così aggiungere, aprire?

Scrive come se fosse la scrittura che s’intesse e si stesse, ma colloca e rimuove, ordina e riordina, taglia, aggiunge, cancella, sposta, modifica. Scrive senza abbandono, indugia a lungo sul testo, cura e decide ogni parola, affinché la tessitura sia pressoché invisibile. Intesse o disfa, intesse e disfa, trasgredisce, rispetta o ignora, afferma, nega e riafferma, ritratta, avanza e retrocede, si sofferma o sorvola, fissa e trasforma, tradisce. Potrebbe essere qualsiasi altra cosa, ugualmente, per tessere un panno liscio e fosco sulla pagina—però è questo e non quello, questo e non altro.

Ciò che non vede, ciò che non sente, ciò che non immagina, non è movimento di penna, parole sul foglio. Nessuna delle parole che il movimento della penna traccia sul foglio—proprio così e non altrimenti—gli è sconosciuta, o non dipende da quella che in lui è morta e non è morta perché si sa vedere morta. Come se non sapesse, dimostra di sapere tutto quel che occorre sapere. Ciò che è morto ritorna trasformato.

Credere, non credere, fingere per un poco di non credere—tutto ciò non è richiesto. Guardare le parole sul foglio come immagini in uno specchio che non riflette—Una porta—Varcare la soglia dello spazio che il movimento e la connessione delle parole aprono—se così piace. Ascoltare, osservare, forse partecipare. Una serie di regole, accettate o create—nessuna regola, regole che cambiano perennemente, regole che poco a poco si svelano—Qui si sa tutto, si può tutto, come se si creasse e se si trasformasse.

Nessun altro vede le immagini che diventano cose di parole sul foglio. «And among the five young trees…» Ciascun lettore è solo con le immagini come se fossero sue, solo con le cose di parole che risuonano, solo come chi, solo, le ha intessute. Le cose di parole sono lì, fra loro.



Call




la finzione è vincolata
alla convenzione che impone di mentire o di tacere
l’immaginazione è morta
l’autore onnisciente è finzione e mistificazione

impossibilità di sfuggire all’alternativa fra menzogna
mistificazione letteraria
e silenzio
rinuncia alla parola
obbligo di dire l’oscurità che impedisce di parlare

dire è necessario
ma privo di verità

necessità di parlare
impossibilità di parlare
aspirazione al silenzio



(Appunti di lettura da Riccardo Campi, Favole per dialettici: Allegoria e modernità, Milano, Mimesis, 2005)
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