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Publié par Alessandro Zabini

G. Gamba, I misteri della Jungla nera, Genova, Donath, 1903.

 

Difficilmente si potrebbe negare che Emilio Salgari abbia foggiato l’immaginario avventuroso italiano della fine dell’Ottocento e della prima metà del secolo scorso. «Accettata la premessa, per altro difficile da confutare, che alla base di ogni romanzo, ma soprattutto del romanzo popolare e d’avventura, sta un insieme di motivi, di miti archetipi (magari agganciate in coppie oppositive, come l’altrove esotico e il mito del chiuso, nave, casa, isola ecc.), di situazioni chiave (l’agnizione), oppure la femmina angelo-demone, l’oggetto talismano, l’attività dello scrittore è una sorta di operazione di sintassi o a-sintassi, in cui ogni motivo vale in quanto valgono le possibilità combinatorie […] lo scrittore d’avventura è in primo luogo imitatore di se stesso e le fasi dell’operazione […] sarebbero reperibili anche all’interno del solo macrotesto mottiano o salgariano. La vera avventura impossibile sarebbe cercare l’autenticità in un universo per sua natura mimetico, ripetitivo, come cercare l’immagine vera nel castello degli specchi» (*) . Applicando questo procedimento, imitando lo stile di Salgari e attingendo all’immenso repertorio d’immagini e di figure avventurose offerto dalle sue opere, i suoi numerosi epigoni hanno costruito un’estensione del suo mondo narrativo che ad esse rimanda costantemente e che senza di esse sarebbe inconcepibile.

 

In una delle sue opere più affascinanti, I misteri della Jungla Nera, Salgari narra dei Thugs, i famigerati strangolatori, i quali, nella loro pagoda sotterranea, tentano di sacrificare una vergine a Kalì. La costellazione di immagini che compone il nucleo del romanzo — setta segreta, pagoda misteriosa, sinistra divinità, vittima sacrificale — è stata poi ripetutamente ripresa dai suoi epigoni, che pur nel rielaborarla l’hanno mantenuta riconoscibile.

Come si è accennato in Rama Sahib, la Tigre della Jungla Nera, se si accostano e si confrontano la creazione e la rielaborazione di alcune immagini di questa costellazione è possibile osservare in qual modo, cioè stilisticamente, le opere di Salgari sono state rimaneggiate dagli epigoni.

 

G. Gamba, I misteri della Jungla nera, Genova, Donath, 1903.

 

Emilio Salgari, I Misteri della Jungla Nera, in Edizione annotata: Il primo ciclo della jungla, a cura di Mario Spagnol, prefazione di Pietro Citati, Milano, Mondadori, 1969. (Prima edizione in volume, Genova, Donath, 1895.)

 

V. La vergine della pagoda, I, pp. 238-239, 245.

Quella pagoda, del più puro stile indiano, era la più bella che Tremal-Naik avesse veduto nelle Sunderbunds. Costruita tutta in granito bigio era alta più che sessanta piedi, con una base larga quanto due terzi dell’altezza, contornata da stupendi colonnati, scolpiti con quella valentìa che distingue la razza indiana.

Man mano che la pagoda saliva, andava a poco a poco restringendosi sino a terminare in una specie di cupola sormontata da una gigantesca palla di metallo, con una punta assai aguzza sostenente il misterioso serpente colla testa di donna.

Agli angoli della pagoda scorgevansi il Trimurti indiano, figurato da tre teste sopra un solo corpo sostenuto da tre gambe e, qua e colà, una moltitudine di sculture strane, curiose, rappresentanti molte figure della storia sacra degl’indiani, Brahma, Siva, Visnù, Parvadi, la sinistra dea della morte seduta sopra un leone, Darma-Ragia, il Plutone degl’indiani e molte altre divinità, nonché un gran numero di mostri spaventevoli e di teste d’elefanti colle proboscidi tese.

[…]

Egli si trovava in una specie di immensa cupola, le cui pareti erano bizzarramente dipinte. Le prime dieci incarnazioni di Visnù, il dio conservativo degli indiani che ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien, erano dipinte all’ingiro, circondate dai principali deverkeli o semi-dei venerati dagl’indiani, protettori degli otto angoli del mondo, abitatori del sorgon, cioè paradiso di quelli che non hanno tanti meriti per andare nel cailasson o paradiso di Siva. A metà della cupola v’erano scolpiti i cateri, giganteschi geni malvagi, che divisi in cinque tribù vanno errando pel mondo dal quale non possono uscire, né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo d’aver raccolto gran numero di preghiere.

Nel mezzo della pagoda si elevava una grande statua di bronzo, rappresentante una donna con quattro braccia, di cui una brandiva una lunga daga e un’altra una testa.

Una grande collana di teschi le scendeva fino al collo dei piedi ed una cintura di mani e di braccia mozzate le stringeva i fianchi.

La faccia di quell’orribile donna era tatuata, le sue orecchie erano adorne di anelli; la lingua dipinta di rosso cupo, del color del sangue, le usciva d’un buon palmo dalle labbra atteggiate ad un feroce sorriso; i polsi erano stretti da larghi braccialetti ed i piedi posavano su di un gigante coperto di ferite.

Quella divinità, lo si capiva a prima vista, trasportata dalla ebbrezza del sangue, danzava sul corpo della vittima.

Un altro oggetto strano, era una vaschetta di marmo bianco, incastonata nelle lucenti pietre del pavimento. Era colma di limpidissima acqua e dentro vedevasi nuotare un pesce di un bel giallo d’oro, piccolo e che somigliava assai ad un mango del Gange.

 

G. Gamba, I misteri della Jungla nera, Genova, Donath, 1903.

 

Antonio Garibaldo Quattrini, I misteri del Gange, Sancasciano Val di Pesa (Firenze), Società Editrice Toscana, 1930. (Prima edizione: Milano, G. Gussoni, 1905.)

 

Capitolo Ottavo. Il ratto del bambino, pp. 89, 90.

Hebe preceduta dalle bajadere, fece il suo ingresso nel gran Lingam ove Kaly sul piedestallo d’alabastro, grottesca e deforme le fece provare un primo brivido.

Il gran sacerdote, vestito degli abiti da parata, circondato dai dodici fakiri, la ricevette con un sorriso a cui Hebe rispose con un  ghigno.

Giunta innanzi al Lingam, un gesto imperioso di Balamana la trattenne.

— Donna! — Incominciò il Sanyassys — sei pronta a ricevere il solenne mandato che ti si sta per conferire? …

Hebe lottò un istante contro l’alternativa, quindi rispose debolmente: — Sì.

— Sei disposta a pronunciare il giuramento?

Nuovo silenzio.

Balamana ripeté la domanda, mentre tutti gli sguardi convergevano sulla Devadasi imbarazzata.

— Sì — confermò finalmente Hebe, a cui il biglietto di Kammimugar dava ancora una volta la forza di vincere la sua riluttanza.

A tale risposta il gran sacerdote s’avanzò maestosamente, s’impadronì dolcemente di un braccio nudo di Hebe e recinse l’omero di un amuleto di cuoio. Quindi ordinò ad un fakiro, che aveva tra le mani una piccola coppa d’oro, di appressarsi.

— Giura dunque, prediletta figlia di Kaly, ripeti con me il giuramento — e nella lingua jeratica indiana pronunciò parola per parola il terribile giuramento di dedizione assoluta al mostro, ripetuto con uno sforzo evidente e stentatamente da Hebe.

Appena terminata la formula, Balamana immerse una specie d’aspersorio nella coppa che il fakiro gli porgeva e con esso bagnò la fronte di Hebe […].

Il sacerdote alfine la lasciò e tolta di mano la coppa al fakiro la depose sul Lingam, ai piedi di Kaly.

Il sacrificio era compiuto.

 

Capitolo Nono. Il cobra, pp. 100-101.

Hebe entrò nel tempio tristemente illuminato, come un nero fantasma, e un brivido la percorse dal capo alle piante.

La fioca luce, lungo le ampie navate, creava ombre paurose di mostri semoventi nelle lievi ondulazioni delle lampade. Il silenzio triste dell’ora infondeva nell’animo un senso di sgomento indicibile, che convertiva in terrore la presenza dei teschi e dei resti umani di cui era ornata la Dea.

Kammimugar […] attese perciò che Hebe facesse le sue genuflessioni, ma la poveretta, quasi trascinandosi a stento, aveva appena raggiunto il primo gradino del Lingam, allorché il silenzio fu rotto da un sibilo sottilissimo, simile in tutto ad una lieve fuga di vapore.

Hebe s’arrestò perplessa, guardandosi attorno.

[…]

In quell’istante stesso, l’occhio destro della Dea si animava, assumeva una forma aguzza dondolante, punteggiata di due luci metalliche dal riflesso sanguigno.

[…]

Senza por tempo in mezzo [Kammimugar] afferrò uno dei drappi che ornavano il Lingam, lo stracciò e con esso si gettò frettolosamente sul cobra che in quella, uscendo dall’occhio di Kaly eccitato chissà da quali arti infernali, cadendo ai piedi della statua, stava per avventarsi contro Hebe.

 

L’Arcangelo, La tigre del Ju-Nan, Como, Casa Editrice “Roma”, 1906.

 

Mario Contarini, La tigre del Ju-Nan, Como, Casa Editrice “Roma”, 1906.

 

Capitolo IV. I misteri del Loto Nero, p. 58.

Erano sboccati proprio dietro all’altare: la lampada che vi ardeva perpetuamente sul davanti, mandava un debole riflesso rossastro che sfuggiva dai lati, interrotto dall’ombra immane di Buddah. — Sfinge muta di sasso, accoccolata stranamente nell’ombra livida che dilagava all’intorno.

Rinaldo spinse curiosamente lo sguardo fra le gambe del dio, poi girò intorno al simulacro e precedendo i suoi compagni, si avanzò audacemente nel tempio.

Il luogo appariva deserto: una luce vaga circonfondeva l’altare, investendo di un riflesso truce la statua mostruosa, che risaltava così nel suo ghigno deforme come una visione paurosa, e si andava perdendo con un lividore strano fra l’intercolonnio: tutto il resto era avvolto nelle tenebre, e gli alti pilastri scomparivano su, nel buio della volta senza fine, con un effetto singolare di colonne spezzate.

Un  silenzio maestoso incombeva nel tempio: pareva che le pareti immani di quell’immensa cripta oscura non avessero sonorità sotterranee, e il rumore dei passi dei due italiani non risvegliava un’eco, quasi assorbito da quelle sorde muraglie di granito,

 

Capitolo V. Nei sotterranei della pagoda, pp. 64-67.

Scivolò come un fantasma di colonna in colonna, verso l’altare, e i due italiani si affilarono silenziosamente dietro di lei.

In pochi istanti raggiunsero il simulacro del dio, che continuava ghignare nel riflesso rossastro della lampada profumata e si arrestarono dietro l’altare, ai piedi dell’immane scultura di sasso.

Giglio d’oro ascoltò un istante attentamente, poi cominciò a inerpicarsi su per certe scabrosità di quel corpo mostruoso, che facevano l’ufficio di gradini, fino su la sommità del simulacro, vale a dire su la testa enorme del grande Gautama, che offriva come una piattaforma.

Un debole riflesso rossastro arrivava fin lassù, accendendo un misterioso agitarsi di larve nelle tenebre fonde: su in alto era tutta un’oscura caligine che si andava addensando al largo della volta senza fine.

 

G. Gamba, I misteri della Jungla nera, Genova, Donath, 1903.

 

Mario Contarini, Il dente di Budda: Avventure, Bovisio (Milano), Società Editrice Roma, s.d. [1908].

 

Capitolo II. La pagoda di Durga, pp. 14, 15.

Allora i ruderi si profilarono nettamente nel chiarore blando dell’aria: gli avanzi di una pagoda innalzata a Durga — una delle sette incarnazioni di Kali — sorgevano da un viluppo inestricabile di vegetazione, tutti rivestiti di liane rampicanti che finivano di disgregare quelle muraglie vetuste, a cui il tempo aveva dato quella tinta indefinibile di grandiosità e di tristezza.

Le cupole maestose erano ancora in buono stato, ma i «pandavoms» erano rovinati, eccetto uno che slanciava il suo profilo sottile nell’aria opalina: tutto il resto scompariva sotto la vegetazione parassita, che allacciava, i ruderi di colonne, e le teste di elefante della dea Pulear scolpite nel sasso e le statue infrante di Parvati, la dea della morte.

Tutto intorno spaziavano le solitudini del Maissur e biancheggiavano le jungle e gli acquitrini nella luce fredda della luna, che navigava placidamente nei cieli. Presso alla pagoda fitti boschi di mangifere, allacciate di liane, macchioni di lauri e di palmizi nani e cespugli di bambù, gettavano la loro ombra fosca, e un piccolo stagno baluginava con balenamenti d’acciaio, bagnando le muraglie grigie del tempio, da quella parte rivestite di mindi.

I due uomini s’internarono silenziosamente fra le rovine, fino a raggiungere l’entrata della pagoda, a cui si accedeva per alcuni gradini di sasso.

[…] Attraversati alcuni corridoi bui, pieni di rottami e di sculture, […] giunsero ad una soglia inquadrata fra due colonne, nel sasso, e chiusa da panneggiamenti di marrocchino.

[…]

Ricche lampade di rame cesellato ardevano nell’interno, spandendo un chiarore abbastanza vivo che si rifrangeva su le pareti: era una sala piuttosto grande, dal soffitto arcuato e dai muri scavati da nicchie e abbelliti di sculture e di colonne. Il pavimento scompariva sotto folti tappeti del Nepal: arazzi bellissimi e drappeggiamenti di marocchino nascondevano la nudità del sasso, armonizzando coi bassi divani ricoperti di ricche stoffe del Bengala, coi morbidi cuscini di raso, coi drappi preziosi del Cachemir, coi trofei strani di armi orientali che abbellivano le pareti.

 

Gennaro D’Amato, La Pagoda nera, Milano, S.A.D.E.L., 1936.

 

Luigi Motta, La Pagoda nera, Milano, S.A.D.E.L., 1936. (Ristampa della prima parte de Il dominatore della Malesia, Milano, Treves, 1909. Ristampa della seconda parte: Il dominatore della Malesia, Milano, S.A.D.E.L., 1946.)

 

Capitolo V. La città sommersa, p. 81.

Man mano che gli occhi degli esploratori s’abituavano alla penombra, distinsero una folla d’indiani nudi, accalcantisi nell’interno della pagoda, intorno a tre piedestalli sorreggenti tre statue grandissime, che rappresentavano la Dea Kalì, fiancheggiata dai suoi due fratelli Djaggernat e Balarama.

Vedute da lassù, nella fosca luce proiettata dalle faci, quelle statue avevano un aspetto orribile.

Le loro facce mostruose erano forate da tre buchi: due cerchiati di bianco, dovevano rappresentare gli occhi; il terzo, dipinto di rosso ardente, la bocca non mai sazia di sangue umano. Quelle sinistre immagini della religione indiana, campeggiavano sullo sfondo cupo del tempio, macabramente adorne di teschi che scendevano in collana fino sul loro petto.

Dall’alto della cupola D’Arris e il compagno potevano udire e vedere perfettamente ogni minima cosa.

Adesso la pagoda si offriva ad entrambi nel suo intero aspetto. L’ala era larga, divisa in tre navate, sorretta da enormi pilastri decorati da immagini raccapriccianti del Nirvana indiano. Ai bracciali delle colonne stavano infitte le torce e le velacus piene d’olio di cocco e di palma, sorrette da catene dorate, che oscillavano mollemente.

Le pareti erano esse pure scolpite, e riproducevano scene della mitologia indiana.

Ma tutti quegli altorilievi scomparivano nella penombra, e la loro tinta oscura rendeva più cupo l’interno della pagoda.

— Questo tempio mi sembra più grandioso di quelli di Madura. di Ellora, e persino di Benares — disse l’Inglese.

— E’ vero.

— E quegli Dei hanno uno sguardo terribile.

— E’ l’occhio del kayal, lo squalo che atterrisce i pescatori indiani!

 

F. Fabbi, La vendetta di Krishna, Milano, Sonzogno, 1928.

 

Cap. Ph. Escurial [Attilio Frescura], L’occhio di Visnù: Romanzo di avventure indo-russe, Bologna, Licinio Cappelli, 1922.

 

Capitolo XV. La lotta nella città sacra, pp. 156-157.

Il grande tempio, senza finestre, munito di una sola grande porta di bronzo e di una uscita segreta, nota solamente ai sette Saggi e al sacerdole [sic] anziano era appena illuminato da una lampada d’argento cesellato; solo quando Visnù avesse avuto il suo occhio, tutte le lampade avrebbero bruciato l’olio profumato dei sacrifici e i curvi corni d’argento delle guardie avrebbero annunciato la grande novella.

Dalle pareti segnate di grafiti in oro purissimo, pendevano le armi delle vittorie, rabescate scintillanti di gemme, e le alte volte mandavano lo scintillio dei mosaici variopinti, con disegni di Maghi, di serpi e di singolari iscrizioni, i cui caratteri ben pochi saggi indiani sapevano decifrare.

 

Carlo Chiostri, Il figlio di Yanez, Firenze, Casa Editrice G. Nerbini, 1928.

 

E. Emilio Fancelli, Il figlio di Yanez: Grande romanzo d’avventure, Firenze, Casa Editrice G. Nerbini, 1928.

 

Parte seconda, Il capo dei “Thugs”. Episodio primo, La pagoda misteriosa della città morta di Bedjapour. I. La consacrazione, pp. 99.

Sulla sua collinetta isolata la pagoda misteriosa detta dalla voce popolare «Covo degli assassini» resisteva impassibile a quel cataclisma, in mezzo alla foresta che si curvava sotto l’azione del vento.

Non vi era un’anima viva al suo esterno e neppure in quella parte semidiroccata dove infuriava la tempesta.

Ma nei sotterranei suoi misteriosi, ne’ quali la voce degli elementi scatenati giungeva a mala pena, una vita intensa regnava.

Era nella gran sala nascosta dalla parete nuda nella quale si apriva la porta ovoidale.

Un centinaio di uomini seminudi, unti di olio di cocco, si trovavano colà riuniti, accoccolati al suolo, dinanzi ad una statua orrida che vi era stata da poco trasportata a braccia, al posto dei sette seggi che servivano ai Sette capi della Società degli Spiriti delle Acque.

Raffigurava la dea Kalì, la dea della distruzione e della morte.

Gli uomini vestivano tutti sommariamente un corto «languti» e portavano alla cintura «tarwars» leggeri e «roomal», i neri fazzoletti degli strangolatori.

Davanti alla statua un tripode d’oro faceva innalzare al cielo un fumo profumato.

Torcie [sic] in buon numero illuminavano la scena che aveva qualcosa di magnifico e di truce.

 

Domenico Natoli, Lo strangolatore bianco, Milano, Sonzogno, 1927.

 

Guglielmo Stocco, Lo strangolatore bianco: romanzo d’avventure indiane, Il romanzo d’avventure, n. 39, anno IV, Milano, Sonzogno, Agosto 1927.

 

Capitolo II. Nei sotterranei di Dakka, pp. 10-11.

L’interno della torre era abitato, ma non un lume rischiarava in quel punto le dense tenebre. Da ogni parte s’intendeva però salire un brusio caratteristico, il rumore sordo di una folla silenziosa, che sta in attesa.

— Fratelli del Loto, sono qui! — esclamò Kanyama con voce robusta, rivolgendo la parola d’ordine al buio che lo circondava.

Si sentì un lieve scalpiccio di piedi, poi, l’una dopo l’altra, una diecina di torce si accesero nel fondo.

Le luce [sic] tremolanti e fumose gettavano dei vaghi e indecisi riflessi sopra una accolta di gente ondeggiante, muta, che seguiva con gli occhi i movimenti di Kanyama. I barbagli rossi cadevano come lingue di fuoco sopra gli adunati, segnandoli di grandi strisce mobili che davano loro degli strani e fantastici atteggiamenti.

[…]

Dove un maggior numero di torce risplendeva […] la luce illuminava le pareti prossime, ma non arrivava a fugare le tenebre che si addensavano in alto: l’interno di quella torre sembrava un pozzo mostruoso, senza sbocco, in cui forse era stata gettata tutta quella gente silenziosa per espiazione d’una colpa orrenda. D’intorno si levavano delle strane figure marmoree, colossali, che i giuochi capricciosi della luce rendevano indistinte e cangianti d’espressione e di significato ad ogni istante, e, ai piedi di queste, brulicava la folla degli adunati.

Kanyama conosceva tanto bene quel posto che non trovava neppur necessario guardarsi intorno ad osservare quelle statue di animali e di divinità; ormai aveva imparato a distinguerle l’una dall’altra tanto bene, che si sarebbe accorto se al collo od alle braccia di qualcuna fosse stato tolto un amuleto od un ornamento.

 

F. Fabbi, La vendetta di Krishna, Milano, Sonzogno, 1928.

 

Italo Vitaliano, La vendetta di Krishna: romanzo d’avventure, Il romanzo d’avventure, n. 55, anno V, Milano, Sonzogno, Dicembre 1928.

 

II. L’evasione, pp. 38-39.

Un’ultima voltata brusca della scaletta. E io mi trovai dinanzi a una stuoia variopinta che chiudeva quasi ermeticamente il cunicolo sotterraneo, e dalla quale filtravano l’aria e la luce. Dov’ero? Dunque non ancora all’aperto? E chi mai poteva nascondersi dietro la stuoia? Mi fermai un momento, rimasi in ascolto. Nulla. Allora mi avvicinai cautamente, salii gli ultimi gradini; e, con infinite precauzioni, sollevai un lembo della stuoia, guardai.

L’interno della pagoda, certo della pagoda di Umaru, mi apparve alla vista. La porta grande del fondo, aperta e numerose finestre, spalancate, lasciavano entrare gli effluvi della notte stellata. Dinanzi a me, in mezzo allo spazio libero da colonne e da ornamenti di qualsiasi genere, una grande statua metallica di Krishna, orribile, sfavillava alla luce rossiccia delle molte fiaccole infisse al suolo; e, ai piedi della statua, un uomo prostrato, forse in adorazione… Lui! Bhaironath Baba!

 

Tancredi Scarpelli, Rama Sahib, La Tigre della Jungla Nera, Roma, Edizioni Illustrate Americane, 1931.

 

Fernando Bellini, Rama Sahib, La Tigre della Jungla Nera, Roma, edizioni Illustrate Americane, 1931.

 

Fascicolo 3. Di fronte al capestro.

Capitolo Primo. Nella pagoda misteriosa, pp. 1, 2.

La pagoda di Palaputla era tutta illuminata dal sole che brillava nel cielo limpido ed il bianco granito della grandiosa costruzione assumeva un aspetto fantastico, irreale, con le sue luci accecanti e le ombre misteriose. Essa è indubbiamente una delle più belle che gli indiani abbiano costruito nelle Sunderbands: così si chiamano le terre che si trovano tra il delta del sacro Gange, l’Hugli, e gli innumerevoli corsi d’acqua che si versano nel golfo di Bengala.

Alta una ventina di metri, su una base assai larga, la pagoda è contornata da stupendi colonnati scolpiti ed è sormontata da una specie di cupola terminata da una grandissima sfera di metallo dorato su cui è posta una lunga lancia sostenuta da un grosso serpente tutto contorto e che ha la testa di una donna: emblema della strana e terribile divinità cui è dedicato il grandioso tempio.

[…]

Agli angoli della pagoda egli scorse piccole torri non molto sporgenti, rotonde, cariche di fregi e di sculture, che recavano una infinità di statue strane e curiose raffiguranti le diverse divinità indiane: Brama, Sivah, Visnù, Parvadi (la dea della morte), il Trimurti figurato da un corpo con tre teste e tre gambe, e poi ancora un gran numero di mostri e di strani animali.

Le torri parevano tutte perfettamente uguali, ed in esse non si vedeva traccia alcuna di portale né di entrata.

 

Capitolo Secondo. La dea degli strangolatori, p. 9.

Nel mezzo della grande pagoda, in una immensa sala dalle pareti altissime e stranamente istoriate di divinità e di animali ibridi, si elevava una grande statua di bronzo dorato rappresentante una donna con quattro braccia; una lunga collana di teschi le girava attorno al collo e le scendeva sino ai piedi; aveva il viso tatuato e dalla bocca le usciva una lingua rosso sangue lunga un buon palmo. Presso la statua, ai suoi piedi, era una piccola vaschetta d’acqua, in cui nuotava un pesciolino color oro.

Era quella, dunque, la terribile dea in nome della quale i thugs strangolano gli uomini che incontrano, servendosi di un lungo e sottile nastro ad un capo del quale è legata una palla di piombo? Sì, era la dea Kalì.

 

Fascicolo 8. I seguaci di Kalì.

Capitolo Quinto. Amore che salva!, p. 21.

La dea Kalì era formata da una statua di bronzo dorato, seduta a gambe incrociate alla moda turca, completamente nuda. Le sue quattro braccia — a due per lato — davano subito l’impressione della ferocia di questa dea. In una mano reggeva per i capelli una testa umana strappata di netto dal tronco; in un’altra un pugnale serpeggiante; nella terza un altro pugnale rabescato; e nella quarta una collana di denti legati in corona. Al collo recava una lunga collana di teschi umani.

 

L’Arcangelo, Il dente di Budda, Bovisio (Milano), Società Editrice Roma, s.d. [1908].

 

(*) Paola Azzolini, «La Grande Tormenta: del discepolo Motta», in Omaggio a Salgari: “Io sono la tigre”, Atti del convegno nazionale di Verona, 26 gennaio 1991, nell’ottantesimo anniversario della morte del romanziere, a cura di Silvino Gonzato, Verona, novembre 1991, pp. 107-108.

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